Il Gaì, la “lingua” dei pastori
C’è chi lo chiamava “Gaì” – come si sente dire prevalentemente nel territorio bresciano – chi “Gavì”, chi “Gaù”, chi “Gain”.
Era l’antico gergo dei pastori, diffuso un tempo su buona parte delle nostre montagne, principalmente nella zona lombarda, ma anche in Svizzera, Tirolo, e talvolta anche in luoghi più lontani.
Un gergo comunque di una certa importanza che assurgeva ad una sua specifica dignità, trattandosi di una parlata antica e diffusa su buona parte dell’arco alpino, così ricco di parole e frasi da poter essere quasi considerato una lingua.
Si trattava comunque di una lingua parlata, tramandata oralmente di generazione in generazione, ma non scritta – spesso i pastori dei tempi passati erano semianalfabeti – che è giunta fino a noi anche grazie ad alcune pubblicazioni, quali “Parre ed il gergo dei suoi pastori” scritta da Antonio Tiraboschi nel 1864, “Il gergo dei pastori bergamaschi” edita nel 1879 ad opera sempre dello stesso Tiraboschi e, soprattutto, il volumetto “Slacadura di Tacoler”, di Giuseppe Facchinetti, edita nel 1921.
Facchinetti, un ricco commerciante di bestiame, infatti decise di pubblicare a proprie spese tale libretto, una sorta di dizionario della parlata pastorale che donò poi a centinaia di pastori affinché non si dimenticassero del loro particolare linguaggio secolare.
Segno evidente che già allora la parlata stava lentamente, ma inesorabilmente, scomparendo.
Il Gaì era un gergo in cui la stessa mimica del volto integrava il tono della voce e le frequenti pause degli interlocutori, tanto che oggi vi sono studiosi di linguistica che affermano che “il gaì non si parlava ma si recitava”.
Per capirne l’essenza si potrebbe leggere la prefazione che lo stesso Facchinetti fece della sua pubblicazione ormai un secolo fa, nel 1921:
«L’autore non ha inteso con la sua Slacadùra di Tacolér di fare un’opera di valore letterario, né di studio nella storia dei dialetti e dei gerghi, ma solo un vademecum pratico, sfrondato da tutto ciò che può tornare di non facile comprensione, per quella classe perseguitata e pur tanto benemerita nei riflessi dell’ economia nazionale, che conta migliaia di pastori.
E poiché i pastori non appartengono alle classi malefiche e proscritte, ma a quelle industriali e benemerite della società, così il linguaggio che usano non rappresenta certo il naturale bisogno dei primi, ma un linguaggio convenzionale che li accomuna e li affratella nelle fatiche e nei disagi della professione, dando loro modo di comunicarsi, come membri di una sola famiglia, le proprie idee.
Così avviene per i seggiolai tirolesi, per gli spazzacamini d’Intragna ed altre classi di lavoratori che hanno un loro gergo. Il lavoretto che non ha precedenti, oltre essere di guida al pastore e di spasso e curiosità ai profani, servirà ai cultori di dialetti e di gerghi sa, come asserisce il Vigezzi: “I dialetti hanno importanza non solo per la storia, ma per conoscere e sentenziare sull’organismo della lingua, e per essere una guida agli etnologi nello studio dei vari elementi concorsi a formare una nazione».
Ma a cosa serviva il Gaì?
Fondamentalmente le ragioni del suo utilizzo erano due: la prima era quella di utilizzare un linguaggio che fosse comune fra pastori che parlavano dialetti diversi, trovandosi in località magari lontane per la transumanza delle greggi.
Dall’altra il Gaì dava un senso di appartenenza alla categoria pastorale, oltre che di protezione, rappresentando una sorta di linguaggio “segreto” che serviva anche per non farsi capire dai proprietari dei fondi.
Un gergo che venne utilizzato anche durante il primo conflitto mondiale, dai pastori che si trovavano al fronte, per comunicare un poco più liberamente con i propri cari eludendo la censura militare che vietava lo scambio di notizie relative alle condizioni e alle località di guerra.
Oggi chiaramente il Gaì è una parlata in disuso ed ormai quasi del tutto scomparsa a causa delle mutate condizioni economiche che hanno visto la quasi totale sparizione del mondo pastorale sulle Alpi, almeno quello su vasta scala d’un tempo.
Ricordare il “Gaì” è quindi un modo per raccontare il passato dei nostri monti, un passato in cui anche le montagne avevano una sorta di linguaggio comune.
Un passato che vedeva nei pastori degli uomini poveri ma liberi, spesso piccoli imprenditori padroni delle greggi che conducevano direttamente sui pascoli. Una vita di certo dura, vagabonda e solitaria, che si doveva costantemente confrontare con le avversità del clima e gli innumerevoli pericoli per gli animali, oltre che con le contese per raggiungere i pascoli migliori e gli accordi con i proprietari dei fondi.
Il Gaì… in 10 frasi*
* tratte dal volume, Antologia Gaì delle Valli bergamasche e della valle Camonica, di seguito citata
- Slacadùra di Tacolér
Lingua di Pastori - Trapelà còl timignöl
Andare col gregge - Samà i tàcoi chè ‘l trapéla i mòch
Prendi le pecore che arrivano i padroni - Stànsia i càmoi ché i trapéla a slacàrne la sfoiòsa
Ci sono le guardie, che vengono a chiederci i documenti - Balcùna per emplombà
Osserva se vuoi imparare - Fà frisà i tàcoi
Far pascolare le pecore in proprietà altrui - Fài la smenàda a la batidùra
Far vedere il tracciato alla pecora che guida il gregge - Samà da l’agrögn a la batìda
Scendere dall’alpeggio per la transumanza - Sbolognà i sofanèi
Fare la spia - Ramacc coi sgréf n dol sgorlér
Presi con le mani nel sacco…
Per saperne di più:
- Giuseppe Facchinetti. Slacadùra di Tacolér (Batidùra per tocc i Crosc, Feder, Petaela, Trolì, Sgalberù e Trol che i sama per ol Glop),Tip. Carnovali Milano, 1921
- Giacomo Goldaniga, Il Gaì delle valli bergamasche e della Valle Camonica, Tipografia Valgrigna, 2016;
- Giacomo Goldaniga, Antologia Gaì delle Valli bergamasche e della valle Camonica, Valgrigna edizioni, 2021
- Centro per l’itineranza e la lana di Malonno, https://macil.it/
E se volete ascoltare il Gaì in musica… trovate alcune canzoni su Youtube (questo il link).
*Articolo apparso sulla rivista Adamello, n. 132/2022