In occasione del centenario dell’evento risulta doveroso ricordare il tragico crollo della diga del Gleno, un bacino ubicato in alta valle di Scalve, che nel 1923 seminò distruzione e morte e che rappresenta ancora oggi la principale calamità dei nostri monti in tempo di pace*.
Un’opera realizzata per produrre, come diremmo oggi, energia pulita, che tuttavia per difetti costruttivi e di realizzazione collassò provocando la morte di centinaia di persone e la distruzione di intere località, un disastro che ha colpito nel profondo le comunità locali.
Purtroppo quanto accadde al Gleno non fu l’unico caso di disastro provocato dal crollo o dalla forza sprigionata dall’acqua di una diga. Se noto è il disastro del Vajont, avvenuto nel 1963 e che causò la morte di 1900 persone, assai meno conosciuto è il cedimento della diga di Molare ad Alessandria nel 1935, un evento simile a quanto accaduto a settembre in Libia e che provocò il decesso di oltre 100 persone, del bacino di Rutte a Tarvisio nel 1965, che quantomeno provocò solo danni materiali, e infine la più recente inondazione della Val di Stava, in trentino, che nel 1985 causò la morte di 268 persone.
Grandi opere ingegneristiche che sfortunatamente, per svariati motivi, sono talora risultate causa di distruzione.
Ma partiamo dall’inizio.
Era il 1917 quando la Ditta Galeazzo Viganò ottenne dalla Prefettura di Bergamo l’autorizzazione a derivare l’acqua del torrente Povo superiore.
Terminata la guerra, nel maggio 1919 venne presentato un progetto esecutivo che prevedeva una diga a gravità nella località detta “piano del Gleno” e già nel mese giugno 1920 si iniziarono i lavori di costruzione delle fondamenta della stessa e, contestualmente, venne richiesto un più ampio utilizzo del bacino.
Già nell’autunno dello stesso anno, tuttavia, alcune denunce anonime segnalavano l’utilizzo di calce e non di cemento nella costruzione della diga. In proposito vennero prelevati anche alcuni campioni che non furono però mai esaminati.
Nell’agosto 1921 ci fu comunque un sopralluogo da parte del Genio Civile che attestò la costruzione della diga ad archi e non a gravità. Il relativo progetto, eseguito dall’ing. Santangelo, venne infatti presentato al Genio Civile solamente nel febbraio del 1922, e al Ministero addirittura nel 1923.
Lo sbarramento alla fine dei lavori risultò lungo circa 260 m, in grado di contenere tra 5 e 6 milioni di metri cubi d’acqua proveniente dai torrenti Povo, Nembo, Tusio ed altri affluenti minori, e permetteva di alimentare le centrali di Bueggio e Valbona.
Terminati i lavori il 22 ottobre 1923 il bacino si riempì completamente per la prima volta, ma vennero anche segnalate numerose perdite di acqua, perdite che andarono ad aggravarsi di giorno in giorno, tanto che il 29 novembre fu effettuato un sopralluogo in proposito.
Due giorni dopo, sabato 1 dicembre, una mattina umida con il cielo coperto, avvenne il disastro: erano le 7.15 quando la diga crollò riversando a valle milioni di metri cubi d’acqua.
Per capire cosa successe ascoltiamo le parole di Franco Morzenti, il custode della diga, rilevabili dagli atti processuali:
“La mattina dell’1 dicembre 1923 verso le 7, ritornando dall’avere aperta l’acqua alla Centrale come da telefonata fattami, passai sopra la passerella in legno ed ero intento a chiudere un buco nel tubo di cemento che raccoglie in parte le acque di fuga, rotto dagli operai. La passerella era appoggiata sopra mensole di ferro infisse nella base della diga e precisamente nella muratura fatta a calce. Sentii d’improvviso come una scossa nella passerella, senza rumore, e contemporaneamente nello stesso istante dall’alto cadere un sasso che piombò nell’acqua sottostante stagnante fra due piloni. Pensai fossero gli operai che passavano nell’alto della diga per andare al lavoro sulla galleria della Bella Valle, ma subito dopo ne cadde uno più grosso. Non si vedeva bene perché era ancora quasi buio. Alzai la testa e vidi nella testata a valle del pilone una striscia nera che dallo spessore saliva in alto in modo tortuoso. Saltai sullo sperone ed accesi un fiammifero ed osservai una crepatura in fondo larga circa tre dita e che salendo si allargava. Ebbi l’impressione che essa si allargasse continuamente.
Scappai subito verso la mia baracca per telefonare l’allarme alla centrale, seguendo la base della diga per poi salire la scaletta che porta alla baracca. ma dopo due piloni, dall’alto, caddero davanti a me dei cornicioni. Onde dovetti tornare indietro, scendere lungo la sponda destra del fondo valle, e indi girare sotto uno sperone di roccia per ritornare verso la baracca. Appena girato lo sperone di roccia sentii come un urto dietro la schiena che mi sospinse. Mi voltai e vidi che il pilone nel quale avevo verificato la crepatura si apriva a metà a destra e metà a sinistra lungo detta crepatura e che gli archi ad essa appoggiati lo seguivano. Nel contempo l’acqua irruppe violenta al punto che non toccava la roccia per lungo tratto e faceva buio sotto di essa.
La colonna mi passò di fianco.
Io ripresi la fuga fino alla baracca, e lassù rivoltatomi vidi che dopo il primo pilone furono travolti d’un colpo tre o quattro piloni. Il bacino si svuotò in circa 12-15 minuti…“
La potenza distruttiva dell’acqua cancellò rapidamente buona parte degli abitati di Bueggio e, poco dopo, di Dezzo di Scalve. Più in basso, già nel bresciano, oltre ad alcune abitazioni isolate di Angolo Terme e Gorzone, dopo uno sbarramento temporaneo fatto di tronchi e detriti, l’acqua infine spazzò via anche l’abitato di Corna di Darfo, ormai nel fondovalle camuno.
Passò meno di un’ora quando la piena raggiunse l’Oglio.
L’arrivo dell’onda d’acqua era stato preannunciato da una forte raffica di vento.
Ufficialmente le vittime furono 356 ma molti furono anche i dispersi e si suppone che i morti in totale abbiano superato le 500 unità.
A ciò si aggiunsero poi gli ingenti danni e ci vollero mesi anche solo per ristabilire i collegamenti fra la Valcamonica e la Val di Scalve.
Arrivò anche il Re, alcuni giorni dopo il disastro, a far visita alle popolazioni colpite.
Ai vertici della ditta Viganò, che aveva in concessione la diga, e al progettista, vennero mosse le accuse di omicidio colposo plurimo.
Il processo si tenne tra il gennaio 1924 e il luglio 1927 ed accertò che i lavori erano stati svolti in modo inadeguato. Condannò quindi Virgilio Viganò e Gio. Battista Santangelo a tre anni e quattro mesi di reclusione e al pagamento di una multa (due anni di reclusione e la pena pecuniaria vennero subito condonati). Tutte le parti presentarono però ricorso: il processo di appello si concluse nel novembre 1928 con l’assoluzione sia di Virgilio Viganò, che nel frattempo era deceduto, sia del progettista Santangelo, per insufficienza di prove.
Anche questa una storia italiana…
Ma cosa causò il cedimento del muro di contenimento della diga?
Rifacendoci agli atti processuali si accertò la scarsa qualità di alcuni materiali a cui si aggiunse, probabilmente in modo determinante, la variazione del progetto in corso d’opera. La parte centrale della diga fu infatti costruita “a gravità” mentre da un certo livello in su, anche per poter risparmiare materiale e costi di costruzione, si passò ad una costruzione ad “archi multipli”, che poggiò nelle arcate centrali non direttamente sulla roccia, come sarebbe stato ottimale, ma sul tampone “a gravità” in precedenza creato.
Un caso unico a livello mondiale.
Ci fu infine anche chi avanzò l’ipotesi che fosse stato un ordigno esplosivo a causare il crollo della diga, ma tutte le testimonianze raccolte all’epoca esclusero sia esplosioni che movimenti sismici.
Volete visitare ciò resta della diga?
Tre sono le possibilità per giungervi, tutte dal territorio di Vilminore di Scalve.
Il percorso più classico e frequentato prende avvio dalla frazione Pianezza (1.260 m) da cui in circa un’ora e 20 minuti si arriva ai ruderi diga (1.520 m).
In alternativa si può salire da Bueggio (1.052 slm), una delle località parzialmente distrutte nel 1923,in circa 1 ora e 30 minuti.
Infine da Nona (1.367 m) prende avvio il percorso forse meno impegnativo con i suoi soli 200 di dislivello e un’ora di percorrenza.
Se avete tempo la scelta migliore potrebbe essere quella di partire da Bueggio, raggiungere la diga e scendere poi a Pianezza, rientrando al punto di partenza una volta raggiunta anche quest’ultima località, tramite un sentiero che prende avvio al primo tornante successivo all’abitato stesso.
Il periodo consigliato va dalla primavera all’autunno, evitando invece i periodi di neve e gelo.
Una nota in merito alla visita: nel periodo estivo, per parcheggiare a Vilminore di Scalve (in caso di sosta superiore alle 2 ore e mezza) serve un gratta e sosta, acquistabile nei vari esercizi del paese.
Per saperne di più
- Il disastro del Gleno, di Giacomo Sebastiano Pedersoli, ed. Toroselle, 1998;
- La tragedia della diga del Gleno – 1° dicembre 1923 – indagine su un disastro dimenticato, di Benedetto Maria Bonomo, Mursia 2016;
- L’acqua, la morte, la memoria: il disastro del Gleno, a cura di Angelo Bendotti, Il filo di Arianna, 2013;
Inoltre è possibile visionare il video sul disastro della diga del Gleno (1923) nel racconto di alcuni superstiti, allora bambini, prodotto dalla Comunità Montana di Scalve nel 2003 al seguente link: https://vimeo.com/230925656
* Articolo apparso sulla rivista Adamello, n.134, di dicembre 2023