I ritmi lenti, vecchi borghi in cui passare l’inverno, baite per la fienagione estiva e alpeggi in alta quota per il pascolo del bestiame…
É la fotografia di una montagna bucolica, confinata nell’immaginario collettivo, che sembra essere ormai sempre più lontana dalla realtà.
Eccettuate le principali località turistiche i nuclei montani stanno infatti vivendo un inesorabile declino, con un numero di abitanti in costante diminuzione e con residenti dall’età sempre più alta.
L’emigrazione dalla montagna, iniziata verso la fine del XIX secolo con l’espansione dell’industrializzazione, ha preso dimensioni rilevanti e, in talune zone, drammatiche a partire dagli anni cinquanta del novecento, con il declino del settore primario e il passaggio da un’economia di sussistenza a quella di mercato.
A confermarlo il rapporto “La montagna perduta. Come la pianura ha condizionato lo sviluppo italiano”, realizzato da CER (Centro Europa Ricerche) e da Tsm-Trentino School of Management, che raccoglie i dati dal 1951 sull’andamento della popolazione, dell’economia e delle infrastrutture, nelle varie regioni italiane.
Nello specifico si nota che se la popolazione italiana, dagli anni cinquanta del secolo scorso ad oggi, è cresciuta di circa 12 milioni di persone, la montagna ha perso invece circa 900mila unità. La crescita, quindi, si è concentrata in pianura e nei principali nuclei urbani. Uniche eccezioni il Trentino-Alto Adige e la Valle d’Aosta dove, al contrario, si è registrata una crescita, rispettivamente del 41% e del 36%.
In generale la causa di questo esodo è da ricercare sia nella crisi delle attività tradizionali come la pastorizia e l’agricoltura, che un tempo erano sufficienti per il sostentamento ma che oggi subiscono la forte concorrenza delle economie di pianura più redditizie e più adatte ad uno sfruttamento intensivo e meccanizzato, sia nella mancanza di servizi, quali sanità, istruzione e trasporti, sia infine nella mancanza di occasioni lavorative, più numerose in prossimità dei nuclei urbani.
Quei pochi comuni montani che non si sono spopolati sono infatti quelli dove i servizi sono oggi efficienti e dove l’agricoltura ha puntato sulla qualità e si è trasformata in una sorta di industria agro-alimentare di grande modernità.
Se nelle zone Appenniniche il fenomeno è più rilevante, la tendenza è comunque presente anche sulle Alpi.
Tale trend negativo è confermato anche per quanto riguarda la Provincia di Brescia, pur con tendenze diverse per quanto riguarda i principali centri e i paesi di fondovalle, che hanno avuto una moderata crescita, a differenza dei nuclei posti nelle valli laterali e alle più alte quote, sempre meno popolati.
Di seguito qualche dato, tratto ponendo a confronto i censimenti della popolazione del 1951 e del 2011 di alcuni Comuni montani sparsi nelle valli bresciane: Paisco Loveno (dai 904 abitanti del 1951 ai 198 del 2011), Saviore dell’Adamello (dai 2.491 del 1951 ai 992 del 2011), Vione (dai 1.467 del 1951 ai 723 del 2011), Lozio (dai 1.121 del 1951 ai 418 del 2011), Prestine (dai 860 del 1951 ai 384 del 2011), Marmentino (dai 1.004 del 1951 ai 676 del 2011), Irma (dai 268 del 1951 ai 147 del 2011), Pertica alta (dai 962 del 1951 ai 599 del 2011), Pertica bassa (dai 1.288 del 1951 ai 686 del 2011), Bagolino (dai 5.295 del 1951 ai 3.940 del 2011), Treviso bresciano (dai 744 del 1951 ai 566 del 2011), Magasa (dai 488 del 1951 ai 145 del 2011), Valvestino (dai 986 del 1951 ai 212 del 2011), Capovalle (dai 827 del 1951 ai 388 del 2011).
Lo spopolamento non è comunque solo un “dato” numerico su cui riflettere ma comporta anche importanti conseguenze in ambito economico, ambientale e sociale. Espone il territorio a rischi come incendi, dissesti idrogeologici, incuria, inselvatichimento dei campi.
Le migrazioni delle generazioni più giovani provocano poi un generale invecchiamento della popolazione rimasta che prelude ad un futuro abbandono di interi villaggi con la contestuale perdita di un’identità alpina e dei valori della cultura tradizionale.
Certo va detto che alcuni interventi della Politica Agricola Comune (PAC) hanno previsto misure volte a sostenere l’agricoltura montana, tramite specifici sussidi, che non hanno tuttavia fermato l’emigrazione.
Forse un miglioramento potrebbe essere possibile con un’adeguata valorizzazione dei prodotti agricoli che rispetto a quelli provenienti da produzioni intensive sono di qualità indiscutibilmente migliore.
C’è poi la Convenzione delle Alpi, il trattato sottoscritto dagli otto Paesi alpini (Austria, Francia, Germania, Italia, Liechtenstein, Principato di Monaco, Slovenia e Svizzera), che oltre alla protezione ambientale prevede anche che si realizzino programmi per lo sviluppo e l’utilizzo sostenibile delle risorse e la salvaguardia delle comunità portatrici di quei patrimoni culturali che si stanno perdendo.
E il turismo? In molte zone oggi il turismo è divenuto l’unica vera fonte di sostentamento.
Tuttavia un suo eccessivo sviluppo, sempre che ciò sia possibile e che risulti una prospettiva adatta a tutte le zone, porta con se il rischio che le montagne diventino qualcosa di fittizio, una sorta di grande parco divertimenti, in cui offrire al turista – visitatore ogni forma di svago.
C’è quindi la necessità di uno sviluppo sostenibile, che preveda la contestuale salvaguardia del patrimonio culturale e naturale.
Presto molte piccole realtà montane saranno abbandonate al degrado e alla forza della natura, località che pur si rianimano in estate, ma che nelle mezze stagioni lasciano emergere la solitudine della montagna.
Fortunatamente se molti scendono in pianura per trovare lavoro e maggiori comfort, c’è però anche chi effettua un percorso inverso, e sale in montagna per inventarsi un diverso futuro, cercando uno stile di vita a misura d’uomo.
Basterà a salvare i nostri monti dallo spopolamento?