Montagne di libertà

Briganti, ribelli, eretici, eremiti ma anche ambientalisti, alpinisti e comunità. Sono tante le persone che nel corso dei secoli hanno visto nella montagna non solo il luogo in cui cercare una libertà altrove negata ma anche il luogo in cui esprimere e godere di una libertà cercata, per una scelta di vita che li riavvicinasse alla natura e che permettesse condizioni di vita migliori, nonostante le asperità naturali.


La montagna è infatti stata a lungo un territorio sicuro ma impervio, lontano dal mondo e difficile da raggiungere, in cui riuscivano ad attenuarsi le differenze fra persone, schieramenti e ceti sociali e si svilupparono sentimenti quali la solidarietà e la coesione. Zone spesso distanti dai principali avvenimenti storici, che si dotavano di proprie regole e che permettevano un piccolo ma duraturo benessere sconosciuto in altri luoghi.

Fu così che fuggiaschi, fuorilegge, briganti e malfattori, protetti dalle difficoltà d’accesso e talvolta dall’omertà dei valligiani, poterono qui far perdere le proprie tracce e vivere liberamente.
Esempi di briganti in fuga sui monti se ne trovano anche in riferimento al territorio bresciano. Ne ricordiamo solo uno, forse il più famoso, quel Zan Zanu, al secolo Giovanni Beatrice, che tra la fine del ‘500 e il 1614 imperversò sulle selvagge alture dell’entroterra gardesano e di cui ancora oggi si tramandano, con toni quasi leggendari, le gesta.

E che dire degli eremiti e più in generale di tutte quei religiosi che hanno voluto allontanarsi dal mondo per vivere una vita ascetica, di preghiera e penitenza, in mezzo al deserto o alle montagne? Cercavano Dio nelle profondità del silenzio e nell’immensità dello spazio, distaccati dalle cose terrene, nutrendosi con quello che offriva la natura.
Su tutti spicca quel Pietro Angeleri, passato alla storia come Papa Celestino V, colui che pronunciò il “gran rifiuto” e di cui restano oggi almeno una dozzina di eremi sparsi nell’Appennino dell’Italia Centrale. Nel 1294 venne eletto Papa ma dopo pochi mesi nella corrotta corte papale di Napoli non si sentì adatto al compito e decise di ritornare a vita contemplativa. Purtroppo per lui Bonifacio VIII, il suo successore, lo fece rinchiudere nella fortezza ciociara di Fumone, dove fra’ Pietro morì nel 1296.
Nelle nostre valli sono numerose le testimonianze di romitori ed edifici religiosi isolati: su tutte spicca probabilmente l’Eremo di S.Glisente, sui monti della media Valle Camonica, luogo di rara suggestione posto in posizione estremamente panoramica.
Oltre a singoli religiosi, dopo l’anno mille i monti divennero luogo prediletto anche di gruppi che i contemporanei definirono “eretici”, quali i Catari, i Valdesi, i Fraticelli, gli Spirituali, uniti simbolicamente in una ricerca del «cristianesimo delle origini» basato sui principi della povertà e nel rifiuto dell’autorità ecclesiastica, che videro nelle montagne il luogo più adatto per poter professare in pace il proprio credo.
In particolare si può qui ricordare la figura di Dolcino e dei suoi Apostolici, che in fuga dal trentino, transitarono anche da Bagolino, salirono poi al passo Crocedomini discendendo quindi in Valcamonica. Da qui si spostarono nella bassa Bergamasca, risalirono poi i monti del Varesotto proseguendo per la Valsesia e raggiungendo infine il monte Rubello, cima delle Alpi Biellesi in cui si asserragliarono per mesi, fra il 1306 e il 1307.

Le montagne rappresentarono, nel corso dei secoli, anche i luoghi in cui si sperimentarono nuove forme di organizzazione sociale, basate sugli usi collettivi di parte delle terre ed in cui i contadini erano liberi, a differenza di quanto avveniva in pianura dove era invece diffusa la “servitù della gleba”.
Basti pensare alla comunità degli Escartons, una sorta di repubblica autonoma costituita da territori montani compresi fra la zona di Briançon, Torino e Cuneo, che dal 29 maggio 1343 al 4 agosto 1789 ebbe propri statuti e godette di privilegi fiscali ed amministrativi. Altissimo anche il livello di istruzione raggiunto da tale comunità: si racconta infatti che ben 9 persone su 10 sapessero leggere e scrivere, un piccolo record per l’epoca.
Dalle valli meridionali del Monte Rosa, in cui si insediano i coloni Walser, alle libere leghe dei Grigioni, che anticiparono il modello federale Svizzero, per finire con le libere comunità, quali quella di Fiemme e del Cadore, gli uomini delle Alpi hanno incarnato inedite ed avanzate forme di coesione pubblica e le montagne hanno rappresentato un rifugio che voleva anche dire libertà dai soprusi, dalle costrizioni, dalla violenza, da un mondo ben diverso da quello che conosciamo oggi.

Durante il settecento nacque il mito delle Alpi libere. Kant, e Schiller videro nei monti la culla delle libertà romantiche, tanto che durante la Rivoluzione francese, un deputato della Convenzione di Parigi sostenne che i savoiardi figli della natura alpestre sarebbero la prova vivente che «l’homme des montagnes» è davvero «l’homme de la Liberté». Furono anche gli anni in cui tale mito venne identificato e incarnato nella leggendaria ribellione, di alcuni secoli precedente, di Guglielmo Tell contro il dominatore asburgico.

In tempi più recenti il binomio montagne e libertà è stato rafforzato da alcuni episodi risalenti al secondo conflitto mondiale.
Partiamo ricordando quanto avvenne nel campo di concentramento britannico numero 354, di Nanyuki, da cui migliaia di connazionali prigionieri di guerra vedevano in lontananza l’elegante silhouette del monte Kenya.
In questo caso la montagna rappresentava prima di tutto una speranza e pensare di scalarla, per quei prigionieri, voleva dire sentirsi ancora vivi.
Dopo mesi di preparativi, Felice Benuzzi, un ufficiale italiano con alle spalle una discreta attività alpinistica, con altri due compagni, fuggì dal campo, e con una rudimentale attrezzatura i tre raggiunsero dopo una decina di giorni la base della montagna. Un paio di giorni dopo salirono la Punta Lenana, di 4.985 metri, dove lasciarono una grande bandiera italiana appositamente realizzata durante la prigionia. Tornarono al Campo 354, vennero puniti ma ottennero anche l’ammirazione inglese.
In Italia invece, dopo l’8 settembre, nacquero due schieramenti. Da un lato chi si identificò con la nuova Repubblica Sociale, dall’altro chi voleva un’Italia diversa e trovò nelle montagne il naturale luogo di fuga, di lotta e di libertà. Inizialmente rifugio di militari allo sbando e di renitenti alla leva, in seguito salirono sui monti anche numerosi oppositori al regime, e si crearono gruppi eterogenei di persone, accomunate dalla comune avversione al fascismo.

Presero presto avvio le azioni di guerriglia, tipiche della guerra partigiana, e durante il 1944 videro la luce anche alcune effimere “Repubbliche partigiane”, primo abbozzo di vita democratica delle società montane, che ebbero tuttavia vita breve.
Il territorio bresciano fu anch’esso al centro di tali avvenimenti. Da un lato la zona del Benaco fu sede dei più importanti ministeri della Repubblica sociale. Dall’altro le montagne, teatro di numerose azioni ribelli e di quella che in molti considerano la principale battaglia partigiana, quella del Mortirolo, che si tenne sul finire di aprile del 1945.

Oggi le montagne rappresentano un luogo in cui ritrovare un sano contatto con l’ambiente naturale, lontano dai ritmi e dagli eccessi della civiltà moderna e dall’inquinamento.
Si trovano così sempre più persone, spinte da motivazioni etiche ed ecologiche, che abbandonata una professione e una certezza economica preferiscono un ritorno alle origini, a contatto con l’ambiente, in cui si tenta di vivere con i prodotti della terra.
E la montagna, nella nostra Italia così densamente popolata ed antropizzata, rappresenta l’unico spazio in cui ciò è possibile.
“Last but no least”, da ultimo ma non meno importante, alpinisti ed escursionisti che trovano nello spazio alpino non solo un ambiente in cui esprimere le proprie aspirazioni ma un vero e proprio luogo di emancipazione in cui l’unica cosa che conta è quella passione alpinistica che caratterizza i frequentatori delle montagne.
Certo oggi c’è anche chi vorrebbe limitare la libertà alpinistica con norme che possano, in qualche modo, ridurre rischi e incidenti, in nome di una maggiore sicurezza sociale…
L’alpinismo è altro, ma questa, forse, è una storia che deve ancora essere scritta.

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